cultura del sacrificio

Contro la cultura del sacrificio

Nei giorni scorsi mi è capitato di leggere un breve articolo di Millionaire in cui veniva criticata l’etica lavorativa delle nuove generazioni mettendola a confronto con quelle precedenti.

In realtà, più che di un articolo si trattava di uno dei tanti click bait che il magazine inserisce nel suo mix di contenuti per portare traffico sulle pagine, dunque non voglio commentare il contenuto in sé.

Leggere l’ode alla cultura del sacrificio nelle parole dell’incravattato uomo d’azienda e nei commenti al post, però, mi ha fatto riflettere.

In primo luogo, ho pensato che a me invece la direzione che sta prendendo il mondo del lavoro piace.

Stiamo lentamente riprendendo coscienza delle nostre priorità dopo una secolare sbornia in cui il modello di riferimento era un mix tra Sergio Marchionne e Jerry Calà.

Siamo più liberi di lavorare ai nostri ritmi e dai luoghi che ci fanno sentire a casa, una bella opportunità anche per ridistribuire denaro e talento nel nostro paese.

Cresce il numero di startup, di lavoratori autonomi e di freelancer, figli di un mondo del lavoro dipendente reso ancora più precario dalla pandemia e spronati dalle nuove opportunità offerte dal digitale e dall’industria creativa.

Dire che i giovani non hanno più voglia di lavorare è sbagliato oltre che riduttivo. È più corretto pensare che sia il mondo del lavoro a essere cambiato e che le nuove generazioni si stiano adattando.

I “nuovi ricchi”, per dirla alla Tim Ferris, non sono i potenti uomini d’affari che guidano auto di lusso, ma persone che hanno la possibilità di disporre liberamente del proprio tempo e hanno una stabilità economica sufficiente per non doversi preoccupare del denaro.

Penso poi che il sacrificio, nel caso, dovrebbe essere volontario e non necessario per ottenere una stabilità economica.

Invece, siamo una repubblica fondata sul lavoro precario.

Più dell’80% dei contratti firmati negli ultimi anni sono contratti “atipici”, quindi a tempo determinato e in altre forme diverse dall’indeterminato full time.

Gli stipendi in Italia sono diminuiti del 3% negli ultimi 30 anni. Nello stesso periodo, negli altri paesi europei sono aumentati in media del 38%.

Più del 10% dei lavoratori italiani, sia con contratti determinati che indeterminati, sono a rischio povertà, cioè con un reddito disponibile equivalente al di sotto della soglia di rischio povertà.

Sacrificio e duro lavoro, quindi, spesso non sono sufficienti, non sono sinonimo di stabilità economica e men che meno di ricchezza.

Ci sono persone che lavorano duro, decisamente di più del manager d’azienda, ma che non si arricchiranno mai a causa dei problemi strutturali legati all’istruzione, alla tecnologia, al mercato del lavoro, alla sicurezza sociale e alle istituzioni.

L’Italia è infatti all’ultimo posto a livello di mobilità sociale tra i paesi industrializzati. Questo significa che è quasi impossibile accedere a una classe sociale superiore rispetto a quella in cui sei nato. Chi ci riesce è un’eccezione alla regola.

Penso allora che sia meglio smettere di perpetrare la cultura del sacrificio come elemento fondante dell’etica del lavoro, e provare ad avere uno sguardo più ampio su quello che succede intorno a noi per capire come stanno cambiando le cose – e per scegliere il nostro personale e insindacabile modo per adattarci.

 

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